di Nicola Perini, presidente di Confservizi Cispel Toscana.
Nei giorni scorsi il Consiglio di Stato ha pubblicato una sentenza su un tema molto complesso e tecnico, ma destinata a produrre un effetto molto semplice: una incertezza normativa e regolatoria per tutte le aziende di gestione dei rifiuti urbani. Alcuni anni fa l’autorità di regolazione nazionale, ARERA, aveva iniziato un processo trasparente e graduale di regolazione di un mercato complicato come quello dei rifiuti urbani. Settore fondamentale per la qualità della vita di cittadini ed imprese e per le politiche ambientali, fatto di decine di aziende che fatturano 12 miliardi di euro l’anno, e che stanno affrontando un enorme sforzo di investimenti per raggiungere gli obiettivi dell’economia circolare, gestendo e realizzando impianti di recupero e di smaltimento.
Per fare questo, occorre un quadro giuridico e regolatorio chiaro, semplice e stabile, che consenta di fare investimenti ed innovazione, avendo un quadro certo di tariffe agli utenti e prezzi di accesso agli impianti. Altrimenti gli investimenti si fermano e gli obiettivi ambientali si allontanano. Da mesi si sta trascinando una controversia legale, che ha come obiettivo il metodo tariffario dei rifiuti urbani e soprattutto il metodo di calcolo dei prezzi di accesso agli impianti, producendo così una grave incertezza. Prima il Tar Lombardia, ora il Consiglio di Stato, forse in futuro la Cassazione, stanno emettendo le loro sentenze, lasciando gli operatori in attesa di qualcosa di definitivo.
Una situazione controversa, sulla quale è bene fare un po’ di chiarezza. In Italia mancano impianti di recupero (digestori anaerobici) e di chiusura del ciclo (inceneritori, gassificatori, ossicombustori, discariche). Sul piano ambientale, va rispettato il principio di prossimità e autosufficienza. Ogni territorio (Regione, ATO) deve disporre degli impianti che servono a chiudere il ciclo, se non li ha li deve fare. Per farlo occorre che le stesse regioni e ATO programmino questi impianti a scala locale, da qui la scelta di ARERA di individuare i cosiddetti “impianti minimi” per chiudere il ciclo a scala regionale.
Le sentenze di Tar e Consiglio di Stato bloccano questo processo, sulla base di un cavillo legale, legato alle competenze.
Occorre quindi che Governo e Parlamento intervengano rapidamente per ripristinare un quadro legale stabile e certo, e consentire così la realizzazione degli impianti di chiusura del ciclo, nel rispetto dell’autosufficienza e della prossimità, principi centrali sia nelle politiche ambientali europee e nazionali, sia nei processi di controllo e gestione tariffaria.
Il rischio è che dietro al contenzioso “in punta di diritto”, si nasconda un tema di assetto di mercato del settore, che punta a consegnare al mercato la soluzione della mancanza di impianti, favorendo l’export di rifiuti verso impianti in Italia o in Europa, senza rispettare il principio ambientale di prossimità e autosufficienza locale. È vero che momentanei prezzi bassi di alcuni impianti possono favorire ora questo approccio. Ma la recente vicenda sul gas russo ci dice che affidarsi strategicamente a soluzioni esterne a prezzi bassi è una scelta rischiosa, considerato che stiamo parlando di servizi essenziali, per i qualideve essere garantita la sicurezza della chiusura del ciclo.
Ecco allora che occorre una soluzione legislativa urgente, per risolvere il problema e garantire in modo equilibrato il sistema. Senza scaricare la crisi sui gestori del servizio e degli impianti.