Per un tessuto imprenditoriale come quello della Toscana, ricchissimo di aziende familiari per lo più di piccole dimensioni, il tema del passaggio generazionale dell’impresa è allo stesso modo vitale e carico di insidie. Non a caso, secondo statistiche citate dalla Camera di commercio di Firenze, solo il 60% delle aziende resta in vita dopo l’ingresso della seconda generazione e di queste non più del 15-20% riesce a superare la terza generazione. E i numeri dell’Ufficio studi dell’ente evidenziano che, nell’area metropolitana fiorentina, il momento della verità per molti si avvicina.
Infatti, secondo quanto rilevato dalla Camera di commercio, a Firenze la quota di over 60 tra chi detiene cariche in imprese attive è più alta della media nazionale (35,7% rispetto al 33,9%). Fra le società di capitali, più di una impresa attiva su cinque (21,4%) è di proprietà di soci ultrasessantenni, con una situazione trasversale a tutti i settori. L’analisi economico-patrimoniale dei bilanci depositati presso il Registro Imprese, secondo lo studio, mostra come le società di capitali ‘mature’ siano meno performanti rispetto alla media di mercato, siano più piccole dimensionalmente (addetti per impresa) e con una minore propensione agli investimenti. Fra le società di persone, il 54,7% è di proprietà di over 60. Per quanto riguarda le ditte individuali, la presenza di ultrasessantenni riguarda il 30,2% degli imprenditori italiani e il 10,8% degli imprenditori nati all’estero.
“Il passaggio va preparato per tempo”
“Il tema del passaggio generazionale va affrontato per tempo e richiede formazione e informazione per superare questo nodo con consapevolezza”, Giuseppe Salvini, segretario generale della Camera di commercio di Firenze che ha ospitato un convegno sul tema, con un panel di esperti e la case history di Sammontana raccontata dal suo presidente, Leonardo Bagnoli. “Pur in un quadro economico in rallentamento – sostiene Salvini -, il nostro territorio registra una sostanziale stabilità nella demografia d’impresa, con il segnale positivo delle società di capitali in crescita. L’anzianità degli amministratori, superiore alla media nazionale, è però un limite e una debolezza in prospettiva”.
“La cosa più importante è la mentalità delle persone che fanno parte dell’azienda, e che sono parte attiva nel passaggio generazionale”, ha spiegato Bagnoli, secondo cui tali passaggi “sono sempre molto difficili, quindi vanno preparati per tempo, vanno preparati in modo adeguato, e questo è il presupposto migliore affinché poi funzionino. In realtà noi abbiamo fatto addirittura due passaggi generazionali, perché fra mio padre e mio zio c’erano 16 anni di differenza, e poi la generazione successiva. Questa cosa è molto rilevante per le aziende italiane, ma in particolare toscane, perché l’azienda familiare è un valore che abbiamo noi, in particolare in Toscana”.
“Ci vogliono regole condivise in famiglia”
“Il primo punto del passaggio generazionale è la separazione tra impresa e famiglia, perché è la famiglia che ha fondato l’impresa, ma l’impresa ha una sua autonomia assoluta”, sottolinea Luca Parenti, vicepresidente di Nobel partners advisory. “Poi – aggiunge -, bisogna applicare un sistema di governance all’impresa familiare: se ci sono più componenti familiari che insistono sulla stessa impresa, bisognerebbe effettivamente darsi delle regole di comportamento, una sorta di regolamento che i componenti della famiglia si danno indipendentemente da quello che poi è il funzionamento autonomo dell’azienda”.
Per Alberto Carisio, intervenuto al convegno in rappresentanza dell’Ordine dei dottori commercialisti, il passaggio generazionale dell’impresa “molto spesso è un problema di impostazione di testa, al di là dei veicoli societari: a volte ci sono Srl che sono trattate, purtroppo, da un punto di vista sostanziale, non dico come se fossero delle società di persone ma quasi. Il problema sono le persone più che gli strumenti. E’ vero che il maggiorascato non c’è più: però più spesso il problema non è tanto non avere il figlio adatto, ma è il non percepire che è non adatto, cioè tenerlo in azienda quando è chiaro agli altri, agli esterni, e non all’imprenditore, al padre, che quel figlio adatto non è. In quel caso il problema è maggiore”.
E dunque altro punto fondamentale, secondo Parenti, è “valutare la competenza più dell’appartenenza: c’è il cognome, ma bisogna effettivamente giudicare se quella persona ha la competenza tale da poter proseguire quello che è il lavoro del fondatore, o dei componenti della famiglia che hanno fino ad oggi gestito e traghettato l’azienda. Quindi, definire le regole condivise per il cambiamento: è uno dei motivi per cui ci vuole tempo, perché ragionando sugli obiettivi da poter raggiungere bisogna con spirito di coesione definire queste regole, la tempistica, le modalità, le spartizioni. Sono tutti concetti che vengono poi tradotti nelle varie operazioni tecniche, ma che di fondo devono avere un consenso e un’accettazione da parte di tutti i membri della famiglia, perché se questo non c’è possiamo avere tutta la strumentazione tecnica ma diventa poi impugnabile, risolvibile, debole”.
Il ruolo degli esterni per facilitare
Il profilo patrimoniale, secondo l’advisor, deve essere adeguatamente valutato perché “quasi sempre abbiamo un concetto di patrimonio più ampio, che è il patrimonio della famiglia, di cui l’impresa è un asset, probabilmente quello fondamentale”. E di fronte a così tante complessità, per Parenti può essere necessario “coinvolgere attori terzi nel passaggio generazionale dell’impresa: molto spesso questi processi vengono aiutati da persone terze perché sono quelle più imparziali, o quantomeno dovrebbero essere imparziali, rispetto a un padre, rispetto al capostipite, e quindi questa figura terza serve per agevolare la formazione di un giudizio, la formazione di un percorso che una persona deve fare, e quindi sono molto utili nell’andare a finalizzare quel consenso di cui abbiamo parlato”.
Anche il private equity, in questa ottica, può avere un ruolo di facilitatore: “Può servire – osserva Gianni Bruschini, vicedirettore generale di Sici – sia alla managerializzazione dell’azienda, sia nel senso di facilitare la successione. Il private equity è un socio temporaneo, e ha nel suo Dna anche la capacità di gestire un passaggio generazionale, perché deve fare profitto e quindi ha la stessa visione dell’imprenditore, per cui ha l’interesse di far sì che certi ruoli apicali nella società possano essere ricoperti con le dovute competenze. Inoltre, e questo è capitato spesso e volentieri, essendo un socio temporaneo ha anche un network di manager che può facilitare l’inserimento di figure simili qualora ce ne sia bisogno”.
Leonardo Testai